Roma imperiale Alimentazione e sport

Roma imperiale Alimentazione e sport

Premessa

Il mondo romano è ricco di informazioni sull'alimentazione dell'epoca grazie alle fonti storiografiche ed iconografiche che ci sono pervenute. Le fonti letterarie a disposizione risalgono soprattutto all'età tardo repubblicana e a quella imperiale: ricordiamo in particolare il De re coquinaria di Apicio e le opere di Catone, Varrone, Columella, tutti trattati che parlano della coltivazione, della produzione e del consumo di generi alimentari (banchetti, consigli culinari, etc.). Oltre a tutto questo ci sono le Satire di Orazio, gli Epigrammi di Marziale e il famoso Satyricon di Petronio (su quest’ultimo in particolare torneremo più volte). Durante l'età repubblicana la severità e l'austerità dei costumi imponevano pasti frugali: lo stesso Catone (vedi sitografia) raccomandava molta sobrietà nella scelta e nel consumo delle vivande. Con l'avvento dell'età imperiale le cose cambiano dal momento in cui, nelle classi più abbienti, si diffonde il gusto per il lusso e per l'eccentrico. Iniziamo a vedere cosa, dunque, si mangiava in quell'epoca. 

Legumi, verdura, spezie, frutta secca

Largamente consumati erano i legumi e i cereali, soprattutto dalle classi più povere, perché fornivano energia all'organismo avendo al contempo un basso costo. Dalla minestra di farro si ricavava una farina da cui si faceva una polenta (puls). Le lenticchie avevano proprietà terapeutiche, si mangiavano accompagnate da olio, verdure e spezie. I ceci erano il cibo dei poveri. Asparagi, bietole, broccoli, carciofi, cardi, cavoli, carote, fagiolini, cetrioli, finocchi, indivia, rapa, radicchio, rucola, ravanelli, sedano, spinaci, zucche, zucchine, aglio, menta, erbe dei campi, mentuccia selvatica, rosmarino, anice, coriandolo erano particolarmente apprezzati. Si diceva che la menta stimolasse l'appetito mentre il basilico era simbolo di odio. Il timo era utilizzato anche per le proprietà antisettiche. Noci e nocciole erano offerte votive ed erano usate come ingrediente per preparare i medicinali. Le noci in particolare venivano mangiate alla fine del banchetto, così come l'uva. Stando a quanto ci riferisce Marziale nei suoi Epigrammi (vedi lezione Roma imperiale L'arte paragrafo Pittura e alimentazione a Pompei). durante le feste dei Saturnalia le noci erano regalate insieme a datteri  ricoperti da foglie dorate. Le melagrane erano simbolo di fertilità perché i chicchi erano dello stesso colore del sangue delle mestruazioni; venivano importate da Cartagine e per questo erano chiamate punica granata (fig.01). Nelle rappresentazioni pittoriche dette Xenia (= doni per ospiti) sono presenti anche i fichi, importati da Chio (fig.02)

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fig.01
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fig.02

Le pesche (fig.03) venivano dal Ponto, le albicocche dall’Armenia. Meloni e angurie giungevano dalla Grecia. 

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fig.03

La frutta non si mangiava solo cruda ma serviva anche a farcire dolci e pietanze. Le mandorle erano simbolo di fertilità. I pinoli si mangiavano col miele come spuntino. Le foglie di cavolo servivano a favorire la digestione e a bendare le ferite in battaglia date le proprietà antibatteriche. Anche le foglie di carota erano usate a scopo medicinale, soprattutto come rimedio contro i veleni. I gladiatori seguivano una dieta ricca di aglio per essere più aggressivi nell'arena. Le cipolle erano apprezzate anche per le proprietà terapeutiche, soprattutto una varietà pompeiana (come afferma Columella nel De Rustica). Il cetriolo curava i morsi di scorpione, il calo della vista e allontanava i topi: molto diffuso era la specie del tortarello. Lo zenzero era così ricercato da essere oggetto di tassa. Era usato a scopo terapeutico, per insaporire tisane, aromatizzare il vino e le carni.

Il pane

Al pane erano dedicati i fornicalia, feste iniziate dal re Numa Pompilio, durante le quali si arrostivano le spighe di grano. Il pane veniva cotto solo nelle case dei ricchi dotate di forno mentre la maggior parte della popolazione lo portava a cuocere presso le botteghe dei fornai. Accanto al forno c’erano sempre due recipienti d'acqua che servivano a spruzzarlo a metà cottura affinché la superficie tardasse a indurirsi. Spesso era speziato. Ce n’erano di diversi tipi e per tutti i gusti, a seconda delle diverse disponibilità economiche: da quello nero per i più poveri a quello cosiddetto candidus, per ricchi, fatto di farina finissima. La forma più tipica era quella con un’incisione a croce che la suddivideva già in otto porzioni. Il pane a Roma, come già si è detto in altre lezioni, aveva una grande valenza sociale per cui gli imperatori distribuivano gratuitamente al popolo chicchi di grano e, in un secondo momento, pani già cotti. Il grano era importato inizialmente dall’Etruria e, in seguito, dalla Sicilia e dal Nord Africa. L'Egitto era chiamato il granaio di Roma. A Pompei solo la metà dei forni era dotata di un'area interna per la vendita del pane destinata direttamente al pubblico, gli altri lo producevano per i locali che facevano da mangiare (vedi più avanti paragrafo dedicato) e per le famiglie dei ricchi. A Roma c'erano circa 350 panettieri e a Pompei oltre 30 panetterie (in queste ultime sono state rinvenute pagnotte carbonizzate a causa dell’eruzione del Vesuvio (fig.04)

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fig.04

Nel monumento funerario del fornaio Eurisace (fig.05) nei pressi di Santa Maria Maggiore a Roma (30- 20 a.C.) sono rappresentati tutti i dettagli della fase della panificazione, tra cui anche la pesatura e la cottura del pane che avvenivano sotto il controllo dei magistrati. Una curiosità: anche l'urna della moglie Atistia presenta la forma di una madia da pane! 

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fig.05

Pane con miele e sesamo era consumato nei banchetti nuziali. Una focaccia con semi e frutta secca impastati col miele si mangiava ai funerali. Le focacce contenevano anche formaggio, riso, latte, noci, mandorle, pepe, anice, foglie di alloro. I proprietari dei panifici erano schiavi liberati molto rispettati (come nel caso di Eurisace). Fenici e siriani erano considerati apprendisti panettieri molto bravi. Durante la festa in onore della dea del forno, il 9 giugno, i forni e gli arnesi erano inghirlandati di fiori. Spesso i fornai ricoprivano prestigiose cariche municipali: è il caso di Paquius Proculus, sindaco di Pompei (fig.06)

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fig.06

Gli imperatori concedevano numerosi diritti alle corporazioni dei fornai e accordavano loro particolari privilegi perché si occupavano del benessere dei romani (non dimentichiamo che il pane aveva valore sociale). I più ricchi esportatori di grano erano a Cadice. Al tempo di Ottaviano Spagna, Sardegna, Sicilia fornivano solo un terzo del grano necessario alla popolazione, un altro terzo proveniva dall'Africa. Giulio Cesare quando andò al potere decise di fondare nuove colonie proprio nell'Africa settentrionale per poter così aumentare la produzione di grano grazie ad una coltivazione più intensa, motivo per cui l'Egitto divenne proprietà personale dell'imperatore (cioè lo amministrava lui direttamente). Il frumento era prodotto in così grandi quantità che poteva anche essere regalato. Vespasiano, nel primo secolo d.C., riuscì a vincere la contesa con Otone, Galba e Vitellio e a divenire imperatore solo quando catturò la flotta che riforniva regolarmente Roma di grano: affamando la popolazione, l'Urbe sarebbe così stata costretta a riconoscerlo come tale! I romani che vivevano nel Belgio, in Francia e in Olanda erano riforniti dal grano proveniente dall’Inghilterra (Sussex e Kent). La distribuzione gratuita del pane da parte dell'imperatore serviva ad allontanare il pericolo delle rivolte: è così che la plebs frumentaria (i plebei che avevano diritto a queste elargizioni gratuite) crebbe nel tempo. Al tempo di Tito (vedi lezione Roma imperiale Tra storia e curiosità) bencirca 205.000 persone ricevevano 35 kg di grano gratis! Per avere diritto alla distribuzione mensile di grano ci si doveva presentare nei luoghi deputati con la tessera frumentaria in bronzo con sopra inciso il ritratto dell'imperatore. Successivamente le tessere vennero fabbricate in piombo e la distribuzione divenne settimanale. Con Aureliano (III secolo d.C.) il diritto al sussidio divenne ereditario. Molto venerata dal popolo era la dea Annona (fig.07) che proteggeva questi donativi: essa compare sulle tessere o sulle monete con le sembianze di una donna che regge nella mano sinistra una cornucopia e un fascio di spighe in quella destra. Spesso in queste raffigurazioni figurano oggetti marinareschi a sottolineare come il grano distribuito gratuitamente fosse importato. 

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fig.07

W il garum!

Nel seguente affresco, in cui compaiono melagrane ed uva, è visibile al centro un dolium (contenitore in terracotta) in bilico che contiene il garum, ingrediente utilizzato insieme all'olio di oliva nei condimenti (fig.08)

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fig.08

Il garum (il garos greco) si otteneva dalla fermentazione di interiora e scarti di pesci lasciati a fermentare per qualche mese nel sale insieme ad erbe aromatiche. Il liquido era filtrato in cocci di terracotta; molto quotato era quello prodotto a Pompei da un certo A. Umbricius Scaurus di cui ci é nota l’abitazione. In uno dei mosaici in bianco e nero che decoravano la sua villa è raffigurato proprio il tipico contenitore del garum con sopra una scritta col suo nome. La salsa era custodita nel dolium avvolto da strati di paglia il cui coperchio era chiuso da cordicelle a ulteriore protezione. Non tutti i romani ne apprezzavano il sapore: Plinio lo definisce una “salsa di pesce putrefatto”. Questo ingrediente culinario era anche considerato un valido medicamento per guarire dai morsi dei cani e dei coccodrilli. Il pesce fermentato era pescato sulle coste italiane, spagnole, francesi e nel Mar Nero ed era lavorato in fabbriche lontane dalla città perché emanavano fetore. I residui del garum si chiamavano allec ed erano utilizzati sia come condimento che per curare i denti. Una tipologia molto ricercata era quello fatto esclusivamente con sgombri. Più alta era la qualità di questa particolare salsa più aumentava il prezzo. Era reso dolce col miele ed aspro quando misto all'aceto. Era aromatizzato con erbe, condiva la cacciagione; curava bruciature, emorroidi e l'otite......

Il pesce

I ricchi romani istallavano nelle loro ville delle vere e proprie piscine per allevare il pesce. Nella casa del Fauno a Pompei è stato rinvenuto un mosaico con una serie di pesci e crostacei, tema di origine ellenistica (fig.09). 

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fig.09

Si mangiavano aragoste, triglie, polpi, murene, dentici, spigoli, gamberi, orate, cefali e saraghi. Sulle tavole c'erano anche cozze allevate, patelle, ricci di mare, capesante. Gli esemplari più pregiati di anguille si pescavano in Grecia. Molto apprezzato era il salmone del Reno trasportato dalla Germania su speciali carri con cisterne piene di acqua cambiata ad ogni sosta. In questo affresco della Casa dei Cervi nel riquadro centrale due seppie pendono dal ripiano mentre figura anche un'aragosta insieme a murici e conchiglie e un Martin pescatore appollaiato su manico del vaso da cui sporge un tridente (fig.10) si vuole alludere ai piaceri della pesca e alla ricchezza del padrone proprietario di tutte quelle vivande. 

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fig.10

Sulle tavole dei ricchi c'erano orate, sogliole, triglie, dentici, trote. I ricchi romani amavano intrattenere i loro ospiti con il macabro spettacolo di una triglia immersa in un vaso di cristallo che, man mano che perdeva la vita, cambiava colore assumendo intense sfumature dal rosso al blu. Proprio per acquistare questo pesce si era disposti a spendere cifre enormi. Gaio Irrio, un romano vissuto nel primo secolo avanti Cristo, era rinomato per i suoi vivaria di anguille con cui riforniva i banchetti di Giulio Cesare. Erano famosi i nomi di Sergio Orata e Licinio Murena, appassionati allevatori di questi pesci in cattività (da cui i loro soprannomi). Il primo, in particolare, ha inventato i vivai di ostriche che allevava nella sua villa a Baia. I frutti di mare erano mangiati cotti o crudi, conservati in giare e insaporiti con salsine. I più poveri consumavano pesci piccoli conservati in salamoia. Le valve dei molluschi, provenienti dai fondali del Mediterraneo, erano utilizzate anche per dare un effetto madreperlaceo agli edifici, soprattutto nei pannelli decorativi. 

La carne

 

La carne era considerata un cibo per ricchi. I romani erano ghiotti di mammelle e vulva di scrofa (si credeva che avessero poteri contro il malocchio). Di solito si sacrificava una scrofa in occasione di un trattato di pace o di una festa di nozze o per espiare la pazzia. In diversi affreschi compaiono animali, vivi o morti, prima di essere cucinati. In quello del gallo con melagrana (fig.11) il volatile appare ancora vivo e sta beccando i chicchi del frutto. Il gallo era uno dei simboli del dio Marte; prima di una battaglia gli veniva offerto da mangiare: se lo divorava in men che non si dica significava che gli dèi erano propizi ai romani. 

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fig.11

Il pollo appare nel riquadro a sinistra dell' affresco della Casa dei Cervi insieme al prosciutto e ad una brocca di vetro (fig.10). Gli oggetti e il volatile sono collocati su più ripiani in modo da evocare l'esposizione tipica dei thermopolia, una sorta di tavola calda. Sono evidenti gli effetti della trasparenza della brocca piena d'acqua coperta virtuosisticamente da una coppa di vetro. Sui ripiani più alti ci sono due prosciutti. Accudire i polli era compito delle donne. I romani mangiavano le salsicce con carne di maiale ridotta in pasta e amalgamata ad aromi, spezie e sale. Erano particolarmente ghiotti di lingue di pavone e di fenicotteri. I buoi si mangiavano in età della vecchiaia quando oramai erano incapaci di lavorare: siccome la loro carne era molto dura veniva consumata frullata e si conservava sotto sale. Molto apprezzati erano maiali, agnelli e capretti. I maiali venivano fatti incrociare con i cinghiali selvatici (fig.12) per ricavarne carni saporite e delicate. 

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fig.12

La carne arrostita era considerata alla stregua di un bottino di guerra da spartire ed oggetto di condivisione nei banchetti in quanto simbolo di virilità. I romani, al pari degli Etruschi, erano ghiotti di ghiri che allevavano al buio, rinchiusi in vasi di terracotta dotati di fori per farli respirare (gliraria). Erano fatti ingrassare per poi mangiarli. Molto apprezzate erano anche i moscardini, piccoli roditori che venivano serviti a tavola mentre ancora si muovevano: si prendevano per la coda e si intingevano nel miele. La carne di cervo si poteva mangiare liberamente anche se era un animale consacrato alla dea Diana. 

Le uova (fig.13)

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fig.13

Le uova erano consumate, anche sode, all'inizio della cena, grazie all’utilizzo di un particolare cucchiaio dal lungo manico acuminato che serviva a mangiare anche le lumache. 

I formaggi e i dolci

La ricotta era presente sulle tavole. Il latte caprino e ovino forniva squisiti formaggi. I pasticceri (cupedinarii) realizzavano dolci farciti con uova e noci o gli adipa, pasticci o dolci ripieni di grasso. In occasione dei banchetti si offrivano dolci con due strati di grasso: il primo livello di semola e l'altro di formaggio erano chiusi tra due strati di impasto. Il nome cassata (fig.14) deriva dal latino caseus (=formaggio) perché si cucinava con la ricotta di pecora zuccherata. Lo zucchero al tempo dei romani non era ancora conosciuto perché si utilizzava il miele. Durante il rito della confarreatio (matrimonio) si preparavano dolcetti di frumento, miele e frutta che venivano sbriciolati sulla testa della sposa come augurio di fertilità.

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fig.14

L’olio

L'olio proveniva dalla Spagna, dal Portogallo e dal Nord Africa. Era trasportato nelle anfore: molte di queste sono state rinvenute nella collina del Testaccio a Roma; qui si gettavano i contenitori dopo l’avvenuto trasporto. L’olio, oltre che in cucina, era utilizzato per i rituali funerari, l’illuminazione e per la cura del corpo. Molto rinomato era quello che proveniva dal Piceno e dalla Sabina. Dopo la raccolta le olive erano lavate e denocciolate, si spremeva la polpa in canestri, si sciacquava con acqua, si separava l'olio, lo si filtrava due volte e lo si metteva in vasche. 

L’aceto

L'aceto deriva dal latino acer= acre. Veniva usato per condire, conservare i cibi e per fare una bevanda rinfrescante chiamata posca, di origine greca, ottenuta diluendo l'aceto di vino in acqua aromatizzata alle erbe. Era diffusa tra i soldati e le classi inferiori.

Il sale

Il sale era costosissimo e serviva a conservare i cibi (salario deriva dalla parola latina salarium =sale). Pensate che i soldati romani venivano pagati proprio con questo condimento! I romani cospargevano di sale le foglie verdi per diminuire l'amarezza del sapore: da qui il nome di insalata= dal latino salada, cioè salata.

Il prosciutto

Per quanto riguarda il prosciutto ricordiamo che sono stati i Celti a conservare la carne sotto sale e ad inventare il prosciutto S.Daniele. Era prodotto crudo perché durava di più. Chiudeva il pasto prima dei dolci.

L’antenato della lasagna

La pasta conosciuta dai romani erano le lagane: arrotolate o tagliate a strisce erano fritte nell’olio o cotte al forno. Dal termine deriverà “lasagna”.

Il macellum (fig.15)

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fig.15

Il luogo in cui si vendevano i prodotti alimentari era il macellum: qui si potevano trovare pescivendoli (piscatores), venditori di leccornie (cuppedinarii), macellai (lanii), cambiavalute (argentarii), cuochi (coqui). Questi ultimi si potevano affittare per cucinare le pietanze durante i banchetti più prestigiosi (come ci ricorda l’Aulularia di Plauto (vedi sitografia). Oltre alla carne e al pesce presso il macellum si potevano acquistare panini, frutta, legumi. Dalla Gallia giungevano i prosciutti, da Bordeaux le ostriche e i frutti di mare, dall'Asia i pavoni, dall'Egitto i datteri, dall'India le spezie.

Cibo e religione

Il cibo è protagonista di diversi rituali: ad esempio, durante i Parentalia, il 13 e il 21 Febbraio, i parenti si recavano presso le tombe dei familiari per offrire corone di fiori, spighe di grano, manciate di sale e pane inzuppato nel vino. La festa si concludeva con la celebrazione delle Feralia, il giorno in cui si credeva che i morti tornassero nel regno dei vivi, motivo per cui si chiudevano i santuari, non si celebravano matrimoni e si tenevano banchetti in onore dei defunti. Durante le festività delle Lemuria il padrone di casa gettava all’ indietro nove fave mentre camminava e pronunciava formule rituali per allontanare i defunti dalle case (qualcosa che ci ricorda i miti di Orfeo ed Euridice e Deucalione e Pirra vedi lezione Antica Grecia Il mito e la religione).

I luoghi di ristorazione

A Pompei c'erano circa 100 luoghi di ristorazione, ad Ostia antica 38. Ricordiamo le popinae, frequentate dalle classi più basse, dove era possibile mangiare, bere arrosti e bolliti. Nelle tabernae originariamente vi si andava per bere il vino, in seguito diventano luoghi in cui si vendeva e si cuoceva il cibo per coloro i quali non disponevano di cucine all'interno delle proprie abitazioni. Il thermopolium era simile al nostro fast food (fig.16).

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fig.16

Il gurgustium o ganeum era un luogo di cattiva fama dove si poteva mangiare e bere; era pubblicizzato da insegne che indicavano come vi si poteva trovare, oltre al cibo e al vino, una compagnia femminile. Pur essendo un posto disdicevole per persone perbene era comunque da queste frequentato in incognito. Pensate che ai senatori era vietato sposare locandiere dato che lavoravano in ambienti frequentati da gente considerata di malaffare (come ad esempio i marinai). I locali di ristorazione più alla moda mettevano a disposizione delle salette interne per pranzi e banchetti richiesti da privati. Sappiamo che la casa di Giulia Felix, a Pompei, esponeva la lista del giorno con i prezzi .In genere i locali erano dotati di insegne che reclamizzavano i prodotti in vendita all'interno: un esempio é quella di un thermopolium in Ostia antica (fig.17) in cui appaiono una rapa, un piatto di legumi, un bicchiere e altri due oggetti non ben identificati. I cibi da “fast food” preferiti erano ceci tostati con cumino e sale e salsicce speziate con peperoni e pinoli.

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fig.17

I pasti giornalieri

Tre erano i principali pasti della giornata: lo ientaculum (colazione) consisteva in una tazza di latte, pane con miele, focaccia intinta nel vino o nel miele e frutta secca. Il prandium era il pranzo di mezzogiorno che si consumava fugacemente: si mangiavano gli avanzi della cena precedente o ci si recava nei locali adibiti alla ristorazione (cauponae, popinae e thermopolia) o si comprava cibo dai venditori ambulanti. La coena era il pasto principale ed era consumato dopo il bagno delle terme nelle prime ore del pomeriggio (verso le 15 o le 16) in famiglia; consisteva in una sola portata che si mangiava attorno al focolare.  Poteva accadere che più tardi si facesse uno spuntino (merenda o vesperna). Con l’età imperiale la coena diventa un momento di convivialità in cui si doveva mostrare il proprio prestigio e si intrecciavano relazioni e contatti a scopo politico: è così che il banchetto serale si sposta nel triclinium, la parte più lussuosa della casa.

I banchetti (fig.18)

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fig.18

Il banchetto con commensali recumbenti (sdraiati cioé sui triclini) é un'usanza che si afferma a Roma a partire dal II secolo avanti Cristo, all'indomani delle vittorie asiatiche, quando nell'Urbe iniziano a diffondersi i costumi orientali. Studi recenti hanno dimostrato che in realtà il banchetto alla greca era già praticato in epoca monarchica come manifestazione del potere aristocratico, ma successivamente è caduto in disuso con l'avvento dell’austera età repubblicana. In epoca imperiale questo tipo di convivio, invece, diventa “alla moda” dal momento che la principale finalità diventa l’ostentazione dello status symbol dell’anfitrione (il padrone di casa). Gli invitati non potevano essere meno di tre (come le tre Grazie) e non più di nove (come le Muse). Già in età repubblicana il triclinio diventa il luogo principale dell'abitazione in cui si tenevano i pasti in compagnia. Qui vi erano disposti tre letti: summus, medianus e imus. Su ciascuno di questi prendevano posto tre persone. L'invitato più importante si sedeva a sinistra del letto medianus mentre il padrone di casa si accomodava nel posto a lui più vicino (locus summus) alla sua sinistra. Il divano sulla destra era riservato agli ospiti di levatura minore. All'inizio il banchetto era riservato massimo a nove persone, ma col tempo il numero aumenta. Un lato della sala era lasciato libero per permettere l'accesso agli schiavi che servivano il banchetto. Nelle pitture del primo secolo d.C., raffiguranti i banchetti, appare il vasellame d'argento. Verso il secondo e il terzo secolo d.C. ai vari triclini si sostituisce un letto semicircolare che poteva ospitare otto persone. Al centro c'era la mensa (il tavolo): questa disposizione è confermata da mosaici, risalenti a questo periodo, che hanno un andamento semicircolare. Nelle ville più lussuose i banchetti avevano luogo all'esterno, nei peristili delle abitazioni. Gli invitati non annunciati, che partecipavano al seguito di ospiti, o i clientes, erano chiamati umbrae e prendevano posto sulle sedie. Originariamente le donne partecipavano da sedute, in seguito hanno trovato posto nei triclini. La posizione semisdraiata permetteva di consumare una maggiore quantità di cibo senza sentire oppresso lo stomaco e favoriva un sonnellino tra una portata e l'altra. Al centro del pavimento di marmo o mosaicato si trovavano le mensae (tavoli) coperte da tovaglie di stoffa (mantele) che venivano ripulite ogni tanto dai servitori con uno strofinaccio di lana dal pelo lungo. Sulla tavola apparivano anche i larva convivialis, scheletri d'argento lunghi circa 10 cm che ricordavano a tutti la brevità della vita e, dunque, invitavano a divertirsi approfittando del banchetto. Per mostrare la propria ricchezza e prestigio c'erano preziose saliere (salinae) e ampolle da aceto (acetabula). Il cibo era servito tagliato in piccoli pezzi. Ci si sdraiava rimanendo appoggiati sulla sinistra mentre ci si serviva con la destra. Si utilizzavano particolari cucchiai per mangiare le lumache e le uova chiamati cochlearia mentre la forchetta e il coltello si usavano solo in cucina. Per le cene importanti si metteva fuori l'argenteria e venivano servite sette portate. La gustatio (antipasti) comprendeva: uova, olive, insalata (alla rughetta si attribuivano poteri afrodisiaci), cipolle. A seguire c'erano le prime mensae con carni arrosto, pesce, frutti di mare, lumache, farinacei, latticini. Si concludeva il tutto con le secundae mensae (dessert) a base di miele. A finire c’era la commisatio, il brindisi finale. I romani erano ghiotti di ghiri ingrassati al buio (retaggio ereditato dagli Etruschi). I ricchi dovevano portare sulla tavola carne di ricci, cervi, lingue di pavone, quaglie, carne di struzzo, di gru, fenicotteri e mammelle di scrofa. Durante l'epoca imperiale porci interi, arrostiti da una parte e boliiti dall’altra, erano imbanditi su ricche tavole. I maiali erano infarciti di ostriche, anguille, pesci, uccellini che si libravano in volo quando ne si squarciava il ventre. Prima di sedersi a tavola i convitati si cambiavano le vesti indossando la vestis cenatoria, si toglievano i sandali per indossarne di più comodi, si lavavano le mani e i piedi con acqua profumata di origano e fiori di camomilla. Le vivande erano portate a tavola da schiavi di bell'aspetto mentre la cena era allietata da ballerini, musici, buffoni, acrobati. Gli schiavi ogni tanto aiutavano i convitati a vomitare per liberarsi lo stomaco e poter continuare a mangiare. Ci si puliva i denti davanti a tutti con stuzzicadenti in legno, oro o argento o con penne di uccello, la cui altra estremità serviva a pulire le orecchie. C'erano lucerne e candelabri per l'illuminazione e bruciaprofumi per cercare di attutire i cattivi odori. L'imperatore Claudio emanò un editto secondo il quale “i peti e le loffe” potevano essere emessi durante i pasti. Alla fine della cena gli invitati raccoglievano gli avanzi in un fazzolettone per portarli a casa. Dopo il pasto si masticavano foglie di alloro fresche per aromatizzare la bocca e il padrone di casa elargiva piccoli doni di vario tipo (apophoreta) che potevano consistere anche in olii ed essenze profumate. C'era l'usanza di bere tante coppe di vino quante erano le lettere del nome dell'ospite. Si beveva in bicchieri, calici d’argento, di onice o murra (cristallo indiano). Tazze e zuppiere erano istoriati di gemme. Il magister bibendi decideva la preparazione tra acqua e vino (a cinque= tre parti di acqua e due di vino; a tre= due parti di acqua e una di vino). Si brindava pronunciando l'augurio “bene tibi, bibas”. I cibi dovevano essere  i più ricercati possibili e venire da lontano, così particolari da non poter essere reperibili al mercato. Il cuoco era chiamato archimagirus mentre il nomenclator era colui che accompagnava gli invitati a tavola e doveva ricordarsi tutti i nomi per sopperire alle eventuali mancanze del padrone. Dalla commedia plautina Aulularia (vedi sitografia) sappiamo che all'epoca dell'antica Roma si potevano affittare sguatteri, cuochi, flautisti, danzatori. Terminata la cena si veniva invitati in una sala pulita nella casa ove avveniva la commisatio, la parte della serata dedicata alle libagioni. Tanto erano lussuosi questi banchetti che ad un certo punto furono emanate delle leggi che cercarono di arginarne le spese. Lo stesso Giulio Cesare, che aveva creato una polizia armata per far rispettare la legge Licinia (97 a.C.) (vedi sitografia), aveva speso milioni di sesterzi per dare un banchetto in onore del suo pontificato facendo arrivare delle ostriche da Taranto in barili pieni di acqua di mare. Nel 181 a.C. viene emanata la lex Orchia che limitava il numero dei convitati. Nel 161 a.C. la lex Fannia stabiliva la cifra massima da spendere per i banchetti. Cicerone (vedi sitografia) cercava di dare il buon esempio mangiando solo luganega, olive e il tirotarico (una focaccia schiacciata). Augusto, dal canto suo, limitava i banchetti a tre portate, massimo sei in caso di eventi importanti. Nella Casa del triclinio a Pompei sono stati rinvenute scene di convivi: in questa una donna beve uno zampillo di vino versato da un rhyton (vedi sitografia) da lei stessa sollevato. Le scritte a mo’ di fumetto collocate sui personaggi annunciano che uno dei commensali è pronto a cantare (fig.19). Sul tavolino al centro ci sono brocche e calici. 

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fig.19

Chi si sporcava il volto si puliva con le molliche di pane o col tovagliolo (mappa), che gli invitati si portavano da casa, in cui si avvolgevano gli avanzi del pasto per portarseli via. Gli schiavi avevano capelli lunghi e riccioluti, erano vestiti con tuniche dai colori vivaci, mescevano il vino e tagliavano la carne. I servi con il compito di pulire erano vestiti rozzamente e portavano il capo rasato. Il carrello su cui si poggiavano vivande e stoviglie era chiamato repositorium. Alla fine della cena, prima della commissatio, i servi portavano le tavolette che raffiguravano i Lari (dei protettori della casa), pronunciavano formule rivolte a propiziarsi gli dèi e si libava col vino puro. Secondo i racconti di Marziale durante i banchetti gli anfitrioni facevano portare pitali in cui liberavano la pancia davanti ai commensali. Plinio racconta che in alcuni convivi il padrone di casa serviva pietanze di prima qualità agli ospiti illustri e cibo scadente in porzioni ridotte a quelli meno importanti. Gli schiavi più belli servivano il padrone di casa e quelli più brutti gli ospiti inferiori....

Apicio (fig.20)

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fig.20

Marco Gavio Apicio è il più famoso cuoco dell'età antica. Nato nel 25 d.C. e vissuto sotto Tiberio, era amico di suo figlio Druso e, al contempo, l'amante di Seiano, il braccio destro dell’imperatore. Ha scritto il famoso trattato di cucina De re coquinaria. Si racconta che aveva dilapidato tutti i beni per soddisfare i suoi gusti culinari raffinati: una volta si accollò le spese dell'invio di una nave in Libia per pescare gamberi enormi con cui cucinare piatti prelibati! Si dice che si sia avvelenato dopo aver scoperto di possedere solo 10.000 sesterzi, cosa che non gli avrebbe più permesso di mantenere alto il suo tenore di vita. Al tempo dei romani esistevano scuole che preparavano alla professione del cuoco, ben remunerata perché aveva molti compiti importanti, tra cui quello di conoscere di ciascun cibo il miglior modo per cucinarlo, curarne la presentazione, occuparsi della pulizia del vasellame e della sala dove si svolgeva il banchetto. Controllava, inoltre, che il giusto ordine di servizio dei piatti da portare a tavola avvenisse nei tempi prestabiliti. La cucina romana si basava su due importanti finalità: stimolare l'appetito e la digestione con l'aggiunta di salse dal sapore forte, spezie, cipolle e porri e trasformare i cibi naturali in piatti elaboratissimi allo scopo di sorprendere i convitati. Il De re coquinaria, in realtà, sembra più un insieme di appunti perché manca di indicazioni sulla quantità degli ingredienti e sulle modalità di presentazione dei piatti ed é stato integrato da altre ricette scritte nei secoli successivi. Plinio ci racconta di famosi piatti cucinati da Apicio tra cui lingue di pavone e di usignolo e manicaretti di tallone di cammello. Di lui ricordiamo anche l'invenzione dell'omelette e quella di un metodo per imballare le ostriche fresche. Si diceva, inoltre, che ingrossasse le oche con i fichi. Si racconta che Tiberio mise all’asta un enorme esemplare di triglia dal peso di un chilo e mezzo scommettendo che solo due uomini se lo sarebbero conteso perché forti economicamente: si trattava di Publio Ottavio (proconsole di Creta e Cirene) e Apicio. E' chiaro che il vincitore implicitamente avrebbe gareggiato con l'imperatore in ricchezza recandogli un'offesa: ecco perché Apicio, cautamente, non partecipò alla contesa.

Altri ghiottoni…

Lucullo

Un famoso buongustaio era Lucullo, il primo che portò a tavola le ciliegie (cosiddette da Cerasunte, la città del Ponto da cui provenivano). Anche quando cenava da solo amava ingozzarsi di cibo prelibato. Lucullo era famoso per possedere estesi vivai in cui allevava pesci e per avere costruito una voliera in sala da pranzo per avere a disposizione tordi da mangiare tutto l’anno. I suoi pasti prevedevano fino a 22 portate e potevano durare 10 ore!

Vitellio

L’imperatore Vitellio (vedi sitografia) adorava un piatto chiamato scudo di Minerva composto da lingue di fenicottero, cervello di pavone e altri cibi stravaganti serviti su un vassoio d'argento. Si dice che fosse così ingordo da ingerire i cibi destinati ai sacrifici degli dèi. 

Eliogabalo

L’imperatore Eliogabalo (vedi lezione Roma Imperiale Tra storia e curiosità…), invece, consacrava ogni banchetto ad un colore e si faceva servire chicchi d'oro con le lenticchie e perle col riso. Per una cena fece preparare 600 cervelli di struzzo con piselli mescolati a chicchi d'oro…

I trattati di cucina

Tra i trattati dell'antica Roma che parlano di cucina c'è il De agricoltura di Catone il Censore (234-149 a.C.) (vedi sitografia)  che si occupa di descrivere tutti i prodotti della terra, la loro trasformazione e conservazione. Parla di piatti semplici e di sana dieta. Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.) (vedi sitografia)  ha scritto il Rerum rusticarum  e il De Lingua Latina in cui spiega i termini utilizzati per indicare gli alimenti ei vari metodi culinari. Columella  (vedi sitografia) , nel primo secolo d.C., ha scritto il De rustica in cui approfondisce la conservazione e l'utilizzo dei prodotti agricoli. 

Il banchetto più famoso della storia: il Satyricon

Petronio Arbitro (di eleganza) scrittore raffinato alla corte di Nerone (e, ahimè, indotto da quest'ultimo al suicidio) ha raccontato nel suo libro il “Satyricon” il banchetto più famoso e “pacchiano” della storia. Protagonista è il liberto arricchito Trimalchione il quale, avendo ricevuto una ricchissima eredità dal suo padrone, si é trasferito in una colonia greca nell’ Italia del Sud e vive dilapidando tutti i suoi averi organizzando anche cene fastose. Tra un piatto e l'altro Trimalchione frusta gli schiavi per mostrare il suo potere, elogia i suoi possedimenti agli ospiti, descrive le sue ville, rivela l'ammontare del suo patrimonio. Crede di essersi fatto una cultura e per questo recita brani dell'Eneide e si vanta di conoscere Omero. Anche la moglie Fortunata é da lui considerata un oggetto da esibire con tutti i suoi gioielli. L'antipasto della famosa cena consiste in un vassoio con sopra un asinello di metallo che portava una bisaccia con due tasche: in una c'erano olive bianche, nell’ altra olive nere. In groppa all'asinello c'erano due piatti che riportavano sull'orlo il nome di Trimalchione e il loro peso in argento. Ponticelli saldati sostenevano ghiri cosparsi di semi di papavero e di miele. Sopra una graticola d’argento ardente c'erano delle salsiccette e, nella parte sottostante, delle prugne di Siria con chicchi di melagrana. Come prima mensa viene portato a tavola un cesto con dentro una gallina di legno con le ali spalancate nell'atto di covare le uova. Due servitori accompagnati dal suono degli strumenti musicali frugano tra la paglia ed estraggono delle uova di pavone destinate ai convitati. Con cucchiaini d'argento forniti agli ospiti ognuno apre il proprio uovo che appare rivestito di pasta frolla: il narratore ci trova un beccafico grasso avvolto in un tuorlo pepato. Come seconda mensa viene portato a tavola un vassoio rotondo di grandi dimensioni con sopra i 12 segni zodiacali: su ognuno di essi appariva una vivanda che lo ricordava. Ad esempio, sul Toro c'era un pezzo di carne di vacca, sui Gemelli dei testicoli, sulla Vergine una vulva di scrofa, sulla Bilancia una bilancia con due piatti (uno di essi conteneva una pizza al formaggio, sull'altro una pizza al miele), sui Pesci c’erano due triglie e sull’ Acquario un'oca. La cacciagione era richiamata dalle scene venatorie che decoravano tessuti ricamati stesi sui letti dei commensali. Ad un certo punto della cena vengono liberati i cani da caccia e viene portata una grande teglia con sopra un’enorme cinghialessa tra le cui zanne pendono cestelli di foglie di palma con dentro datteri. Ma non è finita qui…Quando il servitore Trincia taglia le carni della cinghialessa, dalla ferita escono dei tordi ancora vivi che si librano in volo per poi essere catturati dagli uccellatori per andare in dono ai commensali. Viene scelto un maiale ancora vivo come pietanza del convito e, quando sarà servito a tavola, apparirà ancora più gonfio di come era in vita perché il suo interno è stato imbottito da mortadelle e salsicciotti. Per il dessert Trimalchione serve un vassoio con sopra focacce e al centro una statua di Priapo (vedi sitografia) che regge grappoli di uva e vari frutti. Ostriche, cozze, lumache sono servite a questo punto della cena su una graticola d'argento. Ancora, come dessert ci sono tordi di fior di farina farciti di uva passa e noci. La cena termina con l’uccisione e la cottura del gallo che aveva cantato all'inizio della festa. Una curiosità: quando vengono sfiorate le torte schizzano polvere di zafferano per buon augurio!  Dal racconto della cena di Trimalchione veniamo a sapere che i banchetti erano allietati da intermezzi: all'inizio è eseguito un concerto con protagonista uno scheletro (una sorta di Larva Convivialis); il padrone di casa esegue poi una danza “cordace” (ridicola). Prima della frutta si gioca con gli indovinelli, una lotteria e, a sorpresa, si apre il soffitto per far scendere un cerchio cui sono appese piccole ampolle di profumo. Il tutto é condito da esibizioni di buffoni, vezzi degli amasi (giovinetti amanti dei convitati), danze “osé” accompagnate dalle nacchere. Durante la cena Trimalchione rivelerà come era riuscito ad ereditare il patrimonio del padrone e arriverà a mostrarsi col suo abito funerario...(ennesima provocazione)!

Il vino nella cena di Trimalchione

Il vino, durante il banchetto di Trimalchione, è servito in abbondanza ed é di ottima qualità. A sottolineare la ricchezza esagerata e tremendamente volgare del padrone di casa  viene appositamente sprecato: lo si usa addirittura per far lavare le mani agli ospiti. Il Falerno servito, a detta di Trimalchione, risaliva all'epoca del console Opimo ed era invecchiato di 100 anni.

L’alimentazione dei gladiatori

I gladiatori facevano largo uso di orzo, insaporito con miele e spezie, tanto è vero che venivano chiamati hordierii, cioè “uomini di orzo”. Mangiavano anche una pappa di farro bollito nell’acqua con l’aggiunta di legumi e cipolle. La loro dieta a base di carboidrati prevedeva una bevanda ricavata dalla cenere (una specie di energy drink fatta con il fieno greco). Non si dava loro da mangiare la carne perché era costosissima.

Lo spuntino del legionario

I legionari avevano bisogno di energia dal momento che marciavano anche per sei ore di fila trasportando zaini pesanti, scudi ed armi. Ognuno di loro era dotato di una picozza, una padellina, grano per cucinare pane o zuppe, lardo, olive, un pezzo di formaggio. Erano soliti Inzuppare il vino nel pane: in particolare il vino era aromatizzato con spezie (sambuco, aloe, zafferano, etc.) e conservato con l’aggiunta di argilla, gesso, resina, acqua salata, motivo per cui sul fondo dei contenitori c’erano sedimenti in grande quantità.

La culina (fig.21)

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fig. 21

All'inizio la cucina (culina) si trovava nell’atrium, il luogo in cui il pater familias gettava offerte ai Lari e dava inizio al pranzo. Successivamente viene ubicata nella parte della domus lontana dagli ambienti di rappresentanza (aperta invece ai clientes), nell'area riservata alla vita familiare. La moglie aveva cura della dispensa (cella penaria) custodita dai Penati che proteggevano la fortuna della famiglia. Situata nell'area destinata alla servitù, la culina si trovava su un podio sostenuto da pile di mattoni (suspensurae) dove l'archimagirus (il capocuoco) cuoceva i cibi. L'ambiente era grande circa 15 m quadri, aveva il pavimento in terra battuta o in cocciopesto, le pareti erano in intonacate. In un angolo c’era il forno in mattoni e, lungo il perimetro, un bancone muratura. Accanto alla cucina c'era un acquaio per lo scarico delle acque. Il braciere si trovava sul piano di cottura mentre i contenitori erano poggiati su treppiedi. La carne si faceva cuocere sulla griglia o si infilava in uno spiedo. Non c'erano canne fumarie per cui i fumi uscivano dalla porta o dalla finestra o da aperture nel solaio. La cucina si trovava accanto al bagno perché riforniva di acqua la caldaia e permetteva così il riscaldamento attraverso l'aria calda che circolava tra le suspensurae nell'intercapedine del pavimento. Sopra il forno erano appesi tegami, paioli, pentole per friggere, coltelli e forchette a 5 rebbi per prendere la carne. Nelle insulae (vedi lezione Antica roma Le origini L’età monarchica L’età repubblicana L’arte La condizione femminile Il teatro) ai piani superiori le cose andavano diversamente: c'era un unico spazio dove si mangiava e si dormiva in condizioni igieniche pessime dal momento che era difficile portare l'acqua ai piani superiori. Per cuocere i cibi si usavano fornelli portatili o bracieri con gravi rischi di incendio. Per questo motivo si tendeva a comprare o cucinare cibi all'esterno o ad andare a mangiare nelle tabernae e nelle propinae. Venditori ambulanti cucinavano per strada pesce fritto, spiedini di manzo, uccelli arrostiti. 

Le feste dedicate al vino (fig.22)

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fig.22

A Roma la festa principale in onore del vino era dedicata a Liber, la versione italica del dio Bacco. Rispetto a quest'ultimo, però, sappiamo che proteggeva la fecondità della natura. I Liberalia si festeggiavano il 17 Marzo. Ovidio nei Fasti racconta che in questo giorno alcune donne anziane vestivano i panni delle sacerdotesse devote a Liber, si incoronavano con l'edera e vendevano in strada focacce impastate col miele bruciandone una parte sui fornelli per rendere omaggio al dio. I Vinalia si celebravano il 23 aprile e il 19 agosto ed erano dedicati a Giove. Ad aprile si spillava dalle botti il vino dell'anno precedente mentre ad agosto i festeggiamenti servivano ad auspicare una buona vendemmia prossima. In questa occasione il flamen dialis (sacerote di Giove) consultava gli dèi estraendo le viscere dell'animale immolato per verificare se fossero favorevoli alla raccolta di frutti. Successivamente si sacrificava un agnello e si dava ordine di raccogliere i grappoli...

Le donne e il vino: la festa della Bona Dea (fig.23)

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fig.23

Sin dall'epoca di Romolo era vietato alle donne romane bere il vino. Chi contravveniva al divieto era condannata a morte. Ma perché questa punizione? Tante sono le ipotesi: si pensava che il vino procurasse l'aborto e questo era un pericolo grave per una civiltà che aveva come valore portante la procreazione. Ma forse la spiegazione è un'altra: le donne bevendo perdevano i freni inibitori ed erano portate all'adulterio. Inoltre, in preda ai fumi dell'alcol sarebbero venute meno ai doveri del silenzio e della riservatezza richieste a tutte le matrone e avrebbero potuto rivelare accordi politici segreti, di cui avevano sentito parlare in casa, causando così una battuta d’arresto al cursus honorum degli uomini della famiglia. Plinio racconta che una matrona fu costretta dai familiari a morire di inedia perché aveva aperto la cassetta nella quale erano riposte le chiavi della dispensa ove era custodito il vino. Al II secolo risale una fonte secondo cui a una donna malata era stato prescritto il vino come medicina, ma fu comunque giudicata colpevole dal momento che ne aveva bevuto più del dovuto all'insaputa del marito (e, per questo motivo, ci rimise il matrimonio con tutta la dote). I parenti fino al sesto grado godevano del diritto allo ius osculi, cioè potevano baciare sulla bocca le donne della famiglia per verificare se il loro alito emanasse odore di vino, nel qual caso sarebbero state condannate a morte. Tuttavia, secondo recenti studi, alcuni tipi di vino non rientravano nel divieto: per esempio il passito e quello profumato con la mirra. L'unico momento in cui alle donne era permesso bere il vino erano le feste dedicate alla Bona Dea, una divinità di origine italica. Avvenivano a dicembre e vi potevano partecipare solo le donne. La sera precedente tutte le entità maschili e le loro immagini erano rimosse o occultate: i ritratti erano coperti e gli uomini e gli animali maschi venivano fatti uscire di casa. Dopo aver decorato la casa con fiori veniva sacrificata una scrofa, si offriva alla dea una libagione, dopodiché le invitate (tutte donne della “Roma bene” comprese le vestali vedi lezione Antica Roma Le origini L’età monarchica L’età repubblicana Storia Religione Cinema e teatro) cominciavano a banchettare, ad ubriacarsi, a danzare, a divertirsi in libertà. Bevevano il vino chiamandolo latte e coprivano con un velo l'anfora cui l’attingevano per non vederne il contenuto. Con il passare del tempo il divieto alle donne di bere il vino si è ammorbidito: le matrone partecipavano alla parte iniziale della cena, ma quando l'atmosfera iniziava a surriscaldarsi rientravano nelle loro stanze. Marziale dedica uno dei suoi epigrammi a Fescennia, di cui racconta l’abitudine di masticare pastiglie, preparatele da un profumiere, per coprire l'alito di vino bevuto il giorno prima: questa informazione ci rivela che molte donne romane abusavano della bevanda. Un altro esempio di matrona in preda ai fumi dell’alcol è Fortunata, la moglie di Trimalchione, protagonista del banchetto del Satyricon. Plinio il Vecchio narra delle interessanti dinamiche che potevano verificarsi durante un convivio: le donne che vi partecipano sdraiate venivano adocchiate dai mariti altrui, pronti ad approfittare di loro quando i consorti, satolli di cibo e di vino, sprofondavano nel sonno (a queste donne Ovidio impartirà consigli nell'Ars amatoria vedi sitografia)

Vino vs birra

Sia i Greci che i Romani non bevevano la birra perché la consideravano alla stregua di acqua sporca; era acida, aspra, procurava flatulenza: insomma, un liquido apprezzato solo da popolazioni incivili (che tra l’altro la bevevano pura, da contenitori, utilizzando le cannucce)! A Roma un bicchiere del vino peggiore costava più di uno di birra. Di parere opposto erano le tribù celtiche, conquistate da Giulio Cesare, che producevano birra: esse vietarono il commercio del vino nelle loro terre perché ritenevano che fiaccasse lo spirito e rendesse effeminati gli uomini. Una curiosità: la prima birreria a Roma è stata aperta nell'83 d.C. da tre maestri birrai provenienti dalla Britannia agricola. 

I vini più pregiati

Il vino più pregiato, al tempo dell’antica Roma, era il Falerno. Le sue origini sono narrate dal mito secondo cui il dio Bacco un bel giorno decide di andare a visitare la terra, in particolare i dintorni del  Monte Massico in Campania. Ad un certo punto si presenta stanco e affamato presso la dimora di un contadino chiedendogli ospitalità. Quest'ultimo, essendo assai povero, condivide con lui il pasto che aveva preparato per sé e gli offre un giaciglio su cui dormire. Il giorno dopo, quando il contadino si sveglia, trova le pendici del monte coperte da vigneti e il latte, che aveva offerto al pellegrino, trasformato in vino. L'uomo si chiamava Falerno e il suo nome verrà attribuito al vino prodotto nei vigneti che popolano questa zona. Oltre al Falerno c'erano altri vini famosi: il Vaticano, il Marsiglia, quello di Samotracia “purpureo come il mantello di Cesare”, quello di Cipro “giallo come oro”, l'Albano, il Mamertino, eccetera. In generale il vino veniva addolcito col miele, profumato con spezie e petali di fiori, mescolato con acqua calda o fredda a seconda delle stagioni. Si conservava grazie alle resine e alla pece che vi erano mescolate e veniva custodito in anfore chiuse da tappi di sughero o di argilla con una targhetta che ne indicava l'annata e l'origine. Durante il banchetto le anfore venivano stappate, si versava il liquido in un colino per poi filtrarlo in un cratere dove era mescolato ad acqua (mai meno di un terzo). Dal recipiente si attingevano le coppe.

Gli eccessi

Plinio il Vecchio racconta che i romani erano soliti ubriacarsi con regolarità, motivo per cui sviluppano malattie derivanti dall'abuso alcolico. Escogitavano mille stratagemmi per provocare la sete ed ubriacarsi: nei bagni pubblici si espongono a vapori eccessivi, si disidratano e vanno così  a rifornirsi dai venditori di vino appostati nei dintorni; bevono cicuta, un veleno che raffredda il corpo, in modo da essere costretti a bere vino per riscaldarsi; inghiottono polvere di pomice per rallentare l'ebbrezza e continuare a bere; mettono premi in palio a chi beve di più. Un noto ubriacone era Tiberio soprannominato Biberius (da bibere= bere). Nerone era soprannominato Merone con riferimento al merum, termine che indica il vino schietto, bevuto senza dolcificanti e spezie, che l’imperatore amava spesso bere. Tra i maggiori bevitori di vino ricordiamo i soldati centurioni: grazie a loro le viti iniziano ad espandersi nel Nord Europa tanto da far varare a Roma la lex Domitiana, con la quale si  proibirà di piantare nuovi vigneti. Tuttavia, il divieto verrà abrogato nel 276 d.C. così da impiantarne di nuovi, in tutto l’impero, che daranno prodotti di pregio.

Il vino nella letteratura latina

È il poeta Orazio ad affrontare il tema del vino in alcuni suoi componimenti. Nato a Venosa, in Basilicata, studia a Roma e in Grecia. Conosce Virgilio e riesce ad entrare nel circolo di Mecenate. Professa la moderazione del bere perché, a suo dire, si deve gioire in maniera misurata di ciò che si ha (e non fare la fine dei centauri i quali, ubriachi, durante un banchetto di nozze hanno molestato le donne e, per questo, sono stati severamente puniti). Lo scrittore, inoltre, concede un bicchiere di vino a fine giornata soprattutto a chi occupa incarichi di responsabilità, al fine di rilassarsi dallo stress quotidiano. Nelle Georgiche Virgilio descrive tutti i vini più famosi dell'epoca con i loro pregi. Il poeta possedeva un podere a Posillipo e ne curava la coltura: infatti nelle Georgiche mostra di essere un esperto di arboricoltura (di vini, vitigni e non solo). Il Falerno è l'unico vino campano da lui citato. A suo dire la vita in campagna è simbolo di quella pace e prosperità che Augusto era riuscito ad assicurare ai cittadini dell'impero. Quinto Orazio Flacco faceva parte del circolo di Mecenate, al pari di Virgilio. Il vino, nelle Odi, era il suo medicamentum, anche se non di egregia qualità, alla fine di una giornata di lavoro. Orazio addita tutti i coloro i quali, pur essendo molto ricchi, per avarizia bevevano vino scadente, anche in occasione dei banchetti. Fornisce preziosi consigli come, ad esempio, bere il vino di Sorrento, molto leggero, aggiunto ad uno più corposo come il Falerno. Inoltre, per eliminare le impurità che si depositavano sul fondo della coppa, consiglia di raccoglierle con un uovo di piccione. Anche Orazio alla fine elogia la tranquillità della vita di campagna in contrapposizione alla frenesia della vita cittadina in cui tutti aspirano a detenere potere e ricchezza facendo fortuna nelle magistrature o nel commercio. Orazio si fa portavoce dei principi augustei alla base del circolo di Mecenate, austeritas e humilitas, in contrasto con la cupidigia e il lusso sfrenato inseguiti dalla nobilitas romana. Lo stesso Mecenate aveva donato ad Orazio un podere nel territorio sabino. Nonostante questo, lo scrittore non è ricco e la sua cantina non produce vini pregiati. Anche a suo parere il vino non deve essere considerato uno strumento di abbrutimento, bensì uno dei piaceri da assaporare con calma nella vita. Marziale, di origine spagnola, quando arriva a Roma nel 64 d.C. si lega in amicizia con la famiglia di Seneca, legata ai Pisoni, i quali cadranno in disgrazia dopo il fallimento della congiura da loro ordita contro Nerone. E così che Marziale sarà relegato al ruolo di cliente, succube dei suoi patrones (vedi lezione Roma Imperiale Vita quotidiana Il Colosseo e i gladiatori L’eruzione del Vesuvio). Il poeta critica con satira sferzante la società del suo tempo. Ad esempio, parla di un certo Tucca, il quale possiede del Falerno invecchiato che, per avarizia, fa mescere con un mosto di giare vaticane, imbarbarendolo. Gli ospiti ignoranti berranno il vino, credendo sia un Falerno doc, non accorgendosi dell'inganno. Questo perché sono dei parvenus ignoranti, coloro i quali hanno trascinato Roma verso la decadenza politica e sociale. Il vino è protagonista di molte epigrafi che accompagnavano gli xenia, i doni (anche cibo e vino) che gli anfitrioni facevano ai loro ospiti durante i banchetti: quando veniva regalato del vino Marziale fornisce suggerimenti per la sua consumazione. Nell’Epigramma XII Marziale ironizza su un malato di nome Letino che si lamenta della febbre che non va via e che, per dimenticare il suo stato di salute, si rimpinza di cibi pesanti e di vini pregiati. Critica un certo Betico, nell’Epigramma III, accusandolo di avarizia al punto da nutrirsi di vini dal sapore resinoso a buon mercato e di cibi scadenti come l’alec (garum di ultima categoria), polpa di prosciutto e tonno marinato di terz’ ordine. Per Marziale la convivialità é importante: nell’ Epigramma X suggerisce che chi deve mescere il vino durante un banchetto non deve essere uno schiavo qualsiasi, ma uno con i tratti di Ganimede, il bellissimo coppiere degli dèi.....

Una lettura suggestiva sulle conseguenze dei consumi alimentari dei Romani…

Alcuni storici imputano la decadenza della classe dirigente dell’antica Roma anche ai costumi sociali, allo stile di vita assai godereccio, da loro tenuto in età imperiale, caratterizzato da eccessi. L'assunzione di vino cotto in pentole di piombo, la passione per i sapori ottenuti da bizzarri miscugli nocivi alla salute, il consumo eccessivo di aceto e di pepe, l'abnorme impiego di sale, l'uso alimentare della segale cornuta (nociva alla salute), le carni degli animali mangiate frollate: tutto questo ha contribuito a minare alla base la salute delle classi dirigenti e ad avviare l’Urbe verso il crollo definitivo.

Lo sport nell’antica Roma

A Roma i primi agoni (competizioni) erano finanziati da coloro i quali volevano procacciarsi voti alle elezioni politiche; potevano essere indetti anche in occasione di trionfi militari o di funerali privati. In Italia questi tipi di spettacoli sono stati inaugurati dagli Etruschi (vedi lezione Gli Etruschi) che, durante i funerali, organizzavano gare di lotta o spettacoli teatrali (ovviamente stiamo parlando di ceti abbienti). Tra i primi agoni di epoca romana ricordiamo quelli decretati dal Senato per festeggiare la vittoria di Ottaviano ad Azio avvenuta nel 31 a.C. Facendo un salto nel tempo ricordiamo i Neronia, voluti da Nerone nel 60 d.C., che prevedevano gare di musica, ginnastica e competizioni equestri (fig.24) interrotti da un sacrificio solenne. La prassi per partecipare era un po’ complicata: bisognava far registrare il proprio nome e inserire la propria scheda in un'urna. L'ordine di competizione era deciso da un sorteggio. L'organizzazione e la consegna dei premi era a cura di ex consoli. 

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fig.24

Successivamente ci sono stati i Capitolia, cui potevano partecipare solo i liberi dalla nascita. Si gareggiava nudi e per categorie d'età. La corsa era riservata forse saltuariamente anche alle donne (come avveniva per i giochi erei in Grecia vedi lezione Antica Grecia Le donne Il teatro). Poco documentate sono le notizie sul pentathlon (corsa, lancio del disco, lancio del giavellotto, salto, lotta). Sappiamo che c'era il pancrazio (fig.25)

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fig.25

I vincitori venivano premiati con corone di foglie di quercia ed erano accompagnati nella propria città d'origine da una processione solenne su carro trionfale e, probabilmente, godevano di concessioni alimentari. Forse acquisivano anche la cittadinanza romana ad honorem, traguardo molto ambito. Organizzare questi giochi era molto costoso ma dava lustro a Roma e la riempiva di visitatori. A Neapolis (Napoli) avevano luogo i Sebasta in onore di Augusto o della dea Partenope: sono avvenuti per la prima volta nel 2 d.C. Anche in questo caso si parla di agoni ippici e ginnici. I partecipanti dovevano presentarsi a Neapolis entro 30 giorni dalle competizioni e dichiarare il loro nome completo di cittadini (o patronimico se stranieri), la loro patria, età e disciplina di competizione. I premi erano in denaro e corone di spighe. Altre città dell'impero ospitarono agoni alla maniera dei greci: Massalia (Marsiglia), Vienna e Cartagine nell'Africa proconsolare. Ma quali erano a Roma i principali luoghi ove avvenivano le competizioni sportive? Il più antico era il campo Marzio in cui i giovani si allenavano in perizoma. Nel 25 a.C. furono erette le Terme di Agrippa, un ginnasio con ambiente riscaldato in cui era esposto l’Apoxyomenos di Lisippo (vedi sitografia). Poi c'è stato il Gymnasium Neronis nel 62 d.C. Alla fine del primo secolo d.C. Domiziano fece costruire uno stadio laddove ora c'è piazza Navona, in cui avvenivano anche gare di poesia. Infine, ricordiamo sul Colle Oppio le Terme di Traiano: proprio in questo luogo si stabilì un'associazione di atleti greci, che si erano trasferiti a Roma, e un pensionato per atleti. In conclusione, come si può arguire, a Roma lo sport era praticato per divertimento: non aveva il valore educativo e religioso coltivato dai greci (vedi lezione Antica Grecia Alimentazione e sport).

Menù Storico

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Menù banchetto romano

Bibliografia

    • L.Pepe Gli eroi bevono vino Il mondo antico in un bicchiere Casa editrice Laterza Bari, 2018
    • Catalogo mostra Nike Il gioco e la vittoria Roma Colosseo luglio 2003- gennaio 2004, Casa editrice Electa
    • I.Fiorino La cucina Storia culturale di un luogo domestico Casa editrice Einaudi Torino, 2019
    • AA.VV. Cibo La storia illustrata di tutto ciò che mangiamo Edizioni Gribaudo,2018
    • A.Pavone Bacco divino il vino nella storia nella letteratura e nelle tradizioni popolari Casa Editrice Scipioni 72, 2001
    • A.Ferrari La cucina degli dei Miti e ricette dall'antica Grecia alla Roma imperiale Edizioni Blu, 2014
    • Catalogo mostra Cibi e sapori del mondo antico 18 marzo2005-15 gennaio 2006 Edito da Sillabe e Firenze Musei, 2005
    • Catalogo Alle origini del gusto Il cibo a Pompei e nell'Italia antica Asti Palazzo Mazzetti marzo-luglio 2015, casa editrice Marsilio
    • H. Eduard Jacob I seimila anni del pane Storia sacra e storia profana Edizioni Bollati Boringhieri, 2019
    • J.Attali Cibo Una storia globale dalle origini al futuro Edizioni Ponte alle Grazie, 2020
    • M.Forsyth Breve storia dell'ubriachezza Edizioni Il Saggiatore, 2017
    • D. De Liso Letteratura di vino Un viaggio enoico tra le pagine della letteratura d'Italia Franco Cesati editore, 2014
    • E.Bodini Dalla tela alla tavola Da Pompei a Warhol, le ricette sei quadri da portare in tavola per sbalordire Edizioni Jouvence Collana Historica, 2015
    • J. Carcopino La vita quotidiana a Roma all’apogeo dell’impero Collana Biblioteca della storia Vite quotidiane Corriere della Sera, 2018

Letture consigliate

  • A cura di G.Carazzali Apicio L'arte culinaria Manuale di gastronomia classica Edizioni Bompiani, 2017

Per le Unità di Apprendimento

  • Il vino. Un percorso interdisciplinare contenuta nel testo Proposte di unità di apprendimento interdisciplinari per il biennio con Educazione Civica di Rossella Carpentieri Edizioni Loescher, 2021.

    Cibo e alimentazione nell'antica Roma di Rossella Carpentieri contenuta nel testo Storia di ieri, mondo di oggi  di F.Cioffi A.Cristofori Edizioni Loescher, 2022

Sitografia

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